La volontà buona come fine della ragione

Quando Kant tratta dell’imperativo categorico presuppone un bene insito nell’essere umano, una disposizione al bene, il quale utilizza la sua libera volontà per autoregolarsi. Sono la ragione e la moralità collettiva a rendere gli uomini uguali; introduce Kant così la legalità: l’uomo ha piena responsabilità delle proprie azioni e può agire libero, indipendentemente dalle conseguenze. Tutto ciò si basa su di una volontà svincolata dall’esterno e che è in grado di elevare l’uomo oltre i limiti naturali, sensibili.

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L’esigenza della religione

La Critica della ragion pratica si conclude stabilendo la necessità di porre come guida dell’azione morale tre postulati, tra cui quello dell’esistenza di Dio. Questa affermazione comporta la risoluzione della religione nell’etica: non è l’etica che debba scaturire dalla religione, non si tratta perciò di un’etica di tipo contenutistica, con doveri specifici (come le tavole della legge di Mosè), ma formale che indica la forma dell’agire. Seppur trattiamo di un’etica razionale, rimane tuttavia irrisolto il problema della salvezza.
C’è dato comunque sperare, come si sostiene nella Pratica: «se io faccio quello che debbo fare» posso sperare che Dio ricompensi la mia vita virtuosa con il premio della felicità; si ha così il Sommo Bene, la virtù, significa la felicità. A coronamento dei nostri discorsi, che rapporto c’è tra la felicità e la moralità? Avere il rispetto della legislazione morale, interiore, significa subordinare il proprio desiderio di felicità; mentre la virtù deve essere considerata in se stessa nell’idea della ragione ovvero «come l’uomo deve essere».

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La massima come regola dell’arbitrio

Un uomo è moralmente cattivo non tanto per le azioni, sibbene per le intenzioni ovvero in quanto sussistono massime esecrabili in lui; perciò come si può sostenere a priori che un uomo, in senso generale o meno, sia cattivo? Che lo sia per natura? Sussiste in lui un principio malvagio? Una massima cattiva che è il fondamento delle altre massime, che le corrompe? La questione diventa paradossale pur se si intende natura come l’uso della libertà umana; dunque l’uomo è per natura cattivo? Si aggiunga che l’ipotetico fondamento malvagio, tuttavia, è esso stesso un atto di libertà altrimenti sussisterebbe un determinismo. La ragione del male perciò non può trovarsi in nulla che costringa l’arbitrio, né tantomeno in un istinto naturale; ma in una regola che l’arbitrio da a sé, come uso della propria libertà, cioè in una massima.

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Premesse e differenze con La Pura

Chiave di volta è la distinzione tra intelletto e ragione, ovvero fra il conoscere e il pensare, quasi specchio della distinzione tra fenomeno e noumeno: fra ciò che appare, «a noi», e cioè che è, «in sé». Quando Kant delimita la conoscenza oggettiva stricto sensu (il fenomeno, il sapere delle scienze naturali, l’intelletto), spalanca lo spazio infinito della ragione, pensiero volto al sovrasensibile, alla totalità in quanto tale.

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Della cattiveria umana

L’uomo anche il peggiore, non trasgredisce per disubbidienza, per spirito diabolico, la legge morale, a prescindere da quali siano le sue massime, anzi la legge gli si impone, in virtù della disposizione morale stessa, in quanto uomo; e se nessun altro movente lo spingesse in senso contrario, assumerebbe nella propria massima suprema, come principio di determinazione dell’arbitrio, la legge e perciò sarebbe moralmente buono. La legge morale è quel principio universale che attua l’Homo sum, humani nihil a me alienum puto.
La legge morale e l’amore di sé, assunti nelle massime, tuttavia non possono sussistere l’uno accanto all’altro, ma l’uno deve essere subordinato all’altro, come alla sua condizione suprema. Ponendo così come condizione del compimento della legge morale il movente dell’amore di sé e le sue inclinazioni, significa invertire l’ordine morale dei moventi, costituendosi, facendo in tal guisa, come un uomo cattivo. Entrambi i moventi presi separatamente, la legge morale e l’amore di sé (principio, innocente, per cui vengono accolti i moventi della sensibilità, in virtù della disposizione naturale), sono condizione sufficiente a determinare la volontà. La differenza delle massime non dipende dalla differenza dei moventi, materia di quelle – se non fosse così l’uomo sarebbe e moralmente buono e moralmente cattivo insieme. Ciò è in contraddizione in Kant che lo spiega nell’Introduzione al La religione entro i limiti della sola ragione.

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Non c’è una soluzione intermedia

In Kant, le azioni sono sempre giudicabili a partire proprio dall’intenzione, dal «principio interiore delle massime», sul quale si può giudicare la moralità dell’azione; ovvero l’intenzione consiste nel «primo fondamento soggettivo dell’accettazione delle massime»; si ha una buona intenzione o una cattiva intenzione, non v’è una via di mezzo. Intenzione che si estende universalmente all’intero uso della libertà, è una sola e viene colta dal libero arbitrio – altrimenti non potrebbe essere imputabile. Il libero arbitrio accetta le intenzioni, di tale evento non si può conoscere il fondamento soggettivo, né la causa; tale intenzione è come una proprietà dell’arbitrio stesso (su di lui giace), che le spetta per natura, benché essa sia fondata essa rimandi alla libertà e perciò all’essere imputabile. Se l’uomo accoglie il motivo della sua massima, il libero arbitrio viene determinato a un’azione; mentre per natura si intende il principio soggettivo dell’uso della libertà, ovviamente sotto leggi oggettive, principio anteriore ad ogni fatto che cade sotto i sensi.

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Kant o Hegel? Individualità o eticità?

Hegel critica la concezione kantiana di morale, in quanto fondamentalmente astratta ed individuale. In Kant rimane una morale dell’intenzione, mentre Hegel, con la sua eticità dialettica, esprime la realizzazione dell’individuo nell’ambito: familiare, della società e dello Stato.

Se ci si riflette sopra, la morale di Kant può in effetti sembrare quasi egoistica: un’azione risulta essere moralmente valida quando soddisfa il criterio dell’universalizzazione, ossia quando ogni uomo ipotizza il proprio comportamento come adottabile da chiunque, eppure allo stesso tempo è come se andasse a negare a priori il contrario di ciò che l’individuo considera essere il comportamento giusto da adottare.

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Kant e per la pace perpetua

Uno dei testi kantiani più suggestivo e importante è lo scritto Per la pace perpetua (1795), il quale mostra la dipendenza di tanti aspetti della sua filosofia dai problemi della teodicea, termine filosofico introdotto da Leibniz, per riassumere il problema, presente in molte religioni, della sussistenza del male nel mondo in rapporto alla giustificazione della divinità e del suo operato. L’occasione del saggio fu la pace firmata a Basilea il 5 Aprile 1795 tra la Repubblica francese e la Prussia, però già dieci anni prima, Kant aveva espresso le stesse speranze riguardo il futuro dell’umanità. Il tema è affrontato da Kant sottoforma di un trattato internazionale, includendo articoli preliminari e definitivi per la pace perpetua tra gli Stati, nonché due Supplementi: Garanzia e Articolo segreto per la pace perpetua (appendice divisa in due parti sui rapporti tra politica e morale).

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il male radicale di Kant, considerazioni

Da La religione entro i limiti della sola ragione

La frase: l’uomo è cattivo, non può, dopo ciò che precede, voler dire altra cosa che questo: l’uomo è consapevole della legge morale, ed ha tuttavia adottato per massima di allontanarsi (occasionalmente) da questa legge. La frase: l’uomo è cattivo per natura significa solo che tale qualità viene riferita all’uomo, considerato nella sua specie: non nel senso che la cattiveria possa essere dedotta dal concetto della specie umana (dal concetto d’uomo in generale, poiché allora sarebbe necessaria); ma nel senso che, secondo quel che di lui si sa per esperienza, l’uomo non può essere giudicato diversamente, o, in altre parole, che si può presupporre la tendenza al male come soggettivamente necessaria in ogni uomo, anche nel migliore. Ora, questa tendenza bisogna considerarla essa stessa come moralmente cattiva, e perciò non come una disposizione naturale, ma come qualche cosa che possa essere imputato all’uomo, e bisogna quindi che essa consista in massime dell’arbitrio contrarie alla legge. Ma, d’altronde, queste massime, in ragione appunto della libertà, bisogna che siano ritenute in se stesse contingenti, cosa che, a sua volta, non può accordarsi con l’universalità di questo male se il fondamento supremo soggettivo di tutte le massime non è, in un modo qualsiasi, connaturato con la stessa umanità e quasi radicato in essa. Ammesso tutto ciò, potremo allora chiamare questa tendenza una tendenza naturale al male, e, poiché bisogna pur sempre che essa sia colpevole per se stessa, potremo chiamarla un male radicale, innato nella natura umana (pur essendo, ciò non di meno, prodotto a noi da noi stessi). Che una tale tendenza depravata sia di necessità radicata nell’uomo, possiamo risparmiarci di dimostrarlo formalmente, data la quantità di esempi palpitanti che, nei fatti degli uomini, l’esperienza ci pone sotto gli occhi.
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la natura umana secondo Kant

Con natura dell’uomo Kant intende il fondamento soggettivo dell’uso della libertà umana, che prescinde dai sensi, ma è anche allo stesso tempo un atto di libertà in sé, sennò non si potrebbe spiegare il comportamento moralmente buono o malvagio del singolo individuo. La ragione del male dipende non da un istinto naturale, ma da una regola che l’uomo dà a sé stesso, affinché possa esercitare la sua libertà. La legge morale è un imperativo categorico che l’uomo comanda a sé; gli imperativi categorici sono le leggi morali valide universalmente, non per il loro contenuto, ma per la loro forma di legge. Un imperativo categorico deve poter essere reso universale secondo le varie formulazioni, tra cui quella che afferma di agire in modo che la massima della propria azione soggettiva possa diventare legge universale oggettiva della natura.

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