la dialettica hegeliana

Hegel considera il negativo come il motore della storia – in maniera analoga, nelle vite individuali, le esperienze negative generano riflessione; – le guerre “alimentano” i popoli e le nazioni, causando il male del mondo e costringendo l’uomo a prendere coscienza delle proprie azioni. Laddove si trova la negazione esiste una divisione, se vi sono più elementi, o un’auto-differenziazione, se vi è un elemento unico: l’io si auto-differenzia da sé, momento negativo, comprendendo di non essere il “tu”; in questa negazione esiste sicuramente una relazione, il “noi”, che toglie-conserva (Aufheben) l’io e il “tu” portandoli a una visione più ampia. Nel lessico hegeliano, il noi è più concreto del tuio che sono astratti.

Nella filosofia hegeliana questi momenti si definiscono tesi, antitesi e sintesi, spesso tradotti nelle espressioni in sé, per sé e in sé e per sé. La dialettica del grande filosofo idealista, perciò, si rivela un metodo di indagine, ma anche la manifestazione più profonda delle strutture dell’essere e della storia. Possiamo, inoltre, leggere le dinamiche dialettiche come affermazione, negazione e superamento della negazione (del negativo); oppure pongo, pongo contro e pongo insieme. I momenti possono essere concepiti quali l’astratto (intelletto, intelletto che scinde e isola gli elementi), il negativorazionale e il positivorazionale; da qui si capisce che l’intelletto è atto solo a considerazioni parziali, senza l’integrazione della ragione – ragione che pur in Kant concede una visione più ampia. L’astratto infatti si attesta alle determinazioni isolate, il secondo momento le nega, portandole a determinazioni opposte, il positivo-razionale coglie in modo sintetico le peculiarità. Non sussiste perciò qualcosa in sé, scisso dal mondo (Spinoza docet), ma ogni cosa è come in un’infinità di relazioni; tutto ciò a peculiarità etiche che vedremo successivamente.

Una delle sintesi più magistrali è certamente quella della coscienza infelice, laddove v’è la conciliazione tra il finito e l’infinito. La coscienza è triste, disperata di fronte al suo essere mutevole al cospetto dell’Immutabile, tra la realtà sensibile in movimento e la realtà ultrasensibile eterna e stabile. Questa scissione significa la separazione tra l’uomo e Dio, l’uomo aliena se stesso (alienazione, termine tanto caro a Marx, in Hegel trova ampio uso), per proiettarsi e conferire valore al Dio, solo a Dio. Nascono così le religioni; ma queste credenze non soddisfano veramente la pretesa umana di cogliere l’Assoluto a partire dal sensibile, di cogliere l’infinito nel finito. La dialettica della coscienza infelice si mostra a partire dalla devozione (tesi), in cui il pensiero religioso non è in grado di elevarsi a concetto; di poi nel fare (antitesi), le opere buone ove la coscienza cerca nel lavoro e nel mondo di esprimere sé, rinunciando al contatto diretto con Dio, ma riconoscendo in lui le opere buone – il bene proverrebbe e sarebbe causato solo dal Creatore; infine si ha la mortificazione di sé (sintesi), in cui si consuma la vera negazione, ascetica, dell’io a favore di Dio, la rinuncia totale di sé. Il punto più basso, l’ultimo, trapassa dialetticamente nel punto più alto divenendo una tesi: la coscienza tentando di raggiungere quel Dio, si rende conto d’essere lei stessa fautrice di quella divinità, d’essere il soggetto assoluto, già a partire dalla ragione osservativa, fino a cogliere in sé la reale esistenza di quel Assoluto.

Una delle triadi più magistrali, e più astratte, nel senso lemmatico che non ha un realtà effettiva, è certamente quella presente nella logica. La logica si distingue in dell’essere, dell’essenza e del concetto (la triade dialettica è onnipresente); il momento più astratto in assoluto è l’essere, l’essere astratto che non è nulla di per sé, non ha un contenuto, non si manifesta, è dunque il nulla (antitesi), l’oscillazione tra l’essere e il nulla, tra il nulla e l’essere costituisce il divenire – che già canonicamente veniva considerato come il venire dal nulla e l’andare nel nulla. L’essere, il concetto più astratto, più vuoto, meno determinato, coincide col nulla, la sintesi, il divenire, contiene entrambi (l’essere e il nulla). Contro il divenire, questa sintesi, si scaglia l’essere determinato, il suo opposto; ovvero l’opposto dell’essere astratto e del nulla assoluto è l’essere determinato, definibile in funzione della qualità e della quantità – le categorie logiche non solo costituiscono il reale, sia nella natura, sia nello spirito, ma si autodeterminano in un’assoluta necessaria autocostituzione, in una libertà determinata, dal sapore spinoziano. Dunque il concetto è la sintesi dell’essere, che si è dato in un senso astratto, tesi, e dell’essenza che ha colto ciò che proviene dall’essere ma lo nega, pur negandolo lo costituisce, lo delimita (ogni delimitazione è una negazione, come ogni negazione è una delimitazione).

La realtà in Hegel è l’Assoluto, negando ogni forma di religione o rivelazione trascendentale, non a caso Dio consisterebbe nella storia oppure la storia consisterebbe nella manifestazione più propria dell’Assoluto – abbiamo in mente le considerazioni eccezionali di Vito Mancuso, ma riteniamo che Hegel rimanga ateo, se per ateo si intende la negazione di un Dio Creatore, trascendentale. Pur l’Assoluto non è statico e la dialettica, appunto, è la sua manifestazione; un soggetto in divenire.

Un divenire non caotico o senza fine, ma vincolato alla razionalità, “guidato” dalla dialettica; la realtà umana coincide con le più alte manifestazioni dell’Assoluto, dello Spirito, ove si esplica la ragione. La dialettica è un ritmo, legge, oggettivazione; tanto vale per il reale quanto per il pensiero dacché essi coincidono: “ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale”. Un postulato non solo implicito nelle scienze empiriche, ma in tutte le scienze dacché anche in esse, come nella storia, si cercano le ragioni degli eventi dando per postulato che vi siano, che l’agire umano sia sempre mosso da ragioni spesso sfuggenti a coloro che vivono gli eventi; Hegel parla perciò proprio dell’astuzia della ragione.

La dialettica significa la sintesi degli opposti, l’unificazione dei medesimi (padre, madre e figlio dove il figlio conserva, negando, aspetti di entrambi i genitori). La dialettica è riconoscimento, conciliazione, superamento, ricomposizione degli opposti: in uno scontro filosofico, in tal guisa in una guerra, non sussiste solo una ragione, ma le ragioni; la grande fiducia di Hegel è che, in fine, sarà il bene, la scelta o ragione migliore, a trionfare. Hegel come Kant era convinto nell’intima bontà dell’uomo, nonostante entrambi fossero coetanei di eventi drammatici. La ricomposizione mantiene e riconosce i fenomeni ma su di un piano più alto, più concreto; si ha un processo di ricomposizione delle scissioni, si ha un’unità più alta.

La dialettica più «generalissima» coincide con la logica, la natura e lo spirito (divisione che viene riproposta proprio nei volumi de le Scienze filosofiche in compendio) ove lo spirito sintetizza sia l’elemento logico (le categorie sono perciò strutture logiche), sia quello naturale (dove le strutture logiche si manifestano, nel linguaggio hegeliano si estrinsecano). Perciò la natura è Spirito ancora non conscio, non conscio delle proprie strutture. La trasformazione dei concetti gli uni degli altri (la logica), la trasformazione delle realtà naturali (studiate dalla filosofia della natura, le scienze empiriche, ove la fisica viene spiegata più ampiamente dalla chimica, in un visione più ampia e più organica), la trasformazione della psiche del singolo come delle società seguono tutte il processo dialettico.

La realtà non è mai, né mai statica, ma diviene; le varie realtà, perciò non sono vere in sé, ma nell’insieme, le opinioni dei filosofi prese senza il contesto con le altre questioni divengono astratte, aride. L’idealismo significa questo, che l’io non è statico o a parte rispetto al mondo, ma costituisce il proprio reale e, costituendolo, certamente lo plasma e forma a sua guisa; perciò riteniamo che l’idealismo più che la visione del mondo intesa come visione in cui l’essere significa il pensiero, come i manuali spesso ci riportano, dove la realtà non può essere concepita come a parte, ma il reale stesso significa razionalità, più che un trionfo del divenire, del movimento, l’idealismo coincida con l’io storico (è idealista Spinoza, ma non Schelling).

Il movimento evocato accomuna il reale e il pensiero; la dialettica è questo movimento incessante, immanente e non trascendente. Nel mentre, l’Idea, il Soggetto, l’Assoluto si autodetermina, in un senso post-kantiano, è libertà, «si fa», si compie secondo un processo dialettico a spirale: ogni sintesi può divenire tesi; in Hegel non si può parlare propriamente, almeno dell’Hegel de le Enciclopedie, di un cominciamento del Sistema. Si è sempre già nel sistema. Il reale non è un insieme statico di elementi scissi, di sostanze autonome, essa si presenta come una struttura globale, manifestazione dell’Idea; con nulla di fuori, il reale stesso è un infinito progresso in quanto da sé si manifesta, si produce, si estrinseca: non v’è nessuna divinità fuori dalla storia. La storia stessa è quel Dio tanto agognato; le varie manifestazioni sono finite, parziali, colte dall’intelletto, finite (non esistono da sé), visione parziale dell’infinito. Una parte è tale in quanto in funzione del Tutto; in quanto solo con questo tutto coglie la propria essenza, possiede vita: il finito esiste, sussiste, si da a partire e nell‘Infinito. Un infinito razionale dove la ragione lo «abita» e lo costituisce. Il reale è il «luogo» dove si realizza un soggetto spirituale infinito, di cui ciò che vediamo è parte e movimento parziale.

Tornando alla dialettica, infine, ogni sintesi può divenire una tesi per un nuovo processo, come la sintesi dello scetticismo diviene la tesi per un nuovo processo dove l’antitesi si rivela la coscienza infelice e la sintesi la ragione osservativa del Rinascimento.

di Giancarlo Petrella,
Proprietà letteraria riservata©

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