la Critica del giudizio

Per l’«ottimista» Kant c’è una legge morale con valore universale e tale legge è un fatto della ragione, legge non ricavata dall’esperienza poiché universale; è razionale in quanto deve valere per ogni essere umano senziente o meglio ancora per ogni essere razionale (ed è razionale, la legge, anche perché conosciuta per il mezzo della ragione); la legge morale impone un dovere morale, non una necessità di natura. Essa consiste in un imperativo (cioè coincide con una necessità oggettiva dell’azione) ed è incondizionata; perciò si ha l’autonomia della ragione (la morale non deve sottostare a fini, empirici, particolari quali il benessere, la ricchezza, la cultura etc.). L’uomo è destinato al miglioramento; perciò abbiamo definito Kant, come certamente lo sarà Hegel, ottimista (ovviamente volendo semplificare); scrive infatti Tassi, in merito a Kant: l’umanità è chiamata a muoversi in direzione della propria perfezione, e la perfezione coincide con l’universalità della norma etica. La tensione etica porta l’uomo, nel singolo e nella collettività, al compito di un’umanità che si disponga a una vita secondo ragione; sussiste perciò una provvidenza della natura, un termine in cui ogni uomo sarà trattato rispetto e in modo conforme alla propria dignità.

La storia è un insieme di tragedie, stoltezze, distruzioni, deserti morali, sicché la comprensione razionale, attività del filosofo, non può che avvenire indagando la destinazione della specie umana; destinata a migliorarsi, a differenza degli animali, che sono quelli che sono, non hanno un progresso (né scientifico, né morale). A differenza di Rousseau, Kant sostiene che la storia è la sede stessa dell’attuazione del diritto, mentre il filosofo francese denuncia la libertà naturale perduta. Ivi spiegato l’ottimismo Kantiano e il perché sia riduttivo impiegare questo appellativo. L’uomo può estendere oltre i limiti degli istinti naturali le regole e i fini delle proprie attività; ma proprio perché oltrepassa l’istinto, di per sé meccanico, la ragione procede per tentativi, elevandosi progressivamente; forse qui è in embrione quell’idea meravigliosa dello Spirito hegeliano?

Ora con la Critica del giudizio Kant tenta di conciliare, unire, l’«abisso» che si è formato a partire da un mondo meccanico, fenomenico, e il mondo morale, noumenico; ovvero di conciliare la facoltà intellettiva con quella pratica, l’intelletto con la libertà/volontà. La sintesi perciò diviene il sentimento, che in qualità d’essere un evento soggettivo, del soggetto pensante, tuttavia si stabilisce a partire da connotati teoretici e pratici. Mentre nella Pratica si cerca un’esperienza al di là dell’esperienza, un’esperienza del noumeno, la cosa in sé, la libertà, esperienza certa non meno dei fenomeni, ne la Critica del giudizio si cerca di mediare fra le due critiche precedenti, senza negare la rigorosa forma trascendentale della prima né i caratteri postulatori della Pratica. Parrebbe che la natura sia animata da quella finalità, quel senso di libertà, finalismo, che è stato negato precedentemente (nella Pura si può parlare di determinismo delle leggi naturali) e concesso solo all’ambito morale. Infatti: «Ho dovuto dunque eliminare il sapere per far posto alla fede».
Una precisazione: quando parliamo di mediazione non parliamo di riconciliazione, di sintesi assoluta, in quanto tale facoltà intermedia lo è solo per il soggetto, singolo, e non si ha una conciliazione oggettiva. Il mondo meccanico, effettivamente parlando, rimane separato da quello pratico, che esiste in quanto regno della libertà, che è tale proprio in virtù dell’imperativo categorico. Pertanto se tale «terzo mondo», facoltà, è puramente soggettiva sarà il sentimento la sua dimensione (nb. mentre la Pura aveva a che fare con il conoscere e la Pratica con il volere); sentimenti che si esplica nella concezione del piacere e dispiacere. La facoltà del giudicare coincide con il coronamento di un’etica autentica, non basata esclusivamente sul dovere, sui comandi, viepiù sul giudicare; facoltà individuale che risponde alle esigenze pratiche ed estrinseche dell’universale.
La natura diventa come uno specchio intelligibile dell’intelligibilità stessa di un progetto, di una provvidenza, di una volontà buona; di una intelligibilità non data dalle nostre categorie, ma che viene vista negli oggetti. Stessa natura che ha a cuore la tendenza e la vocazione alla libertà di pensiero. L’arte così opera come la natura e la bellezza invece risponde alle esigenze di unità, ordine, armonia; esigenze proprio del soggetto conoscente. Tutto ciò significa che le intuizioni empiriche, la nostra esperienza, di per sé porta una traccia, è segno di intelligibilità di quell’ordine di prima citato; ma queste considerazione non hanno nulla a che fare con il mondo scientifico, viepiù con l’ordine della natura e della bellezza stessa (oggetti de la Critica del giudizio).
Riassumendo ed ampliando: come è possibile sostenere che si tratti di un principio soggettivo, quando il soggetto desidera che il proprio argomento sia universale e lo condivide utilizzando gli stessi termini (il lessico)? Vi è come una terza facoltà, intermedia tra l’intelletto e la ragione, il giudizio; diviso in due fattispecie: 1. il giudizio determinante, composto sia dal particolare (molteplice-sensibile) sia dall’universale (categorie e i principi a priori), ed è il giudizio scientifico nel quale l’universale è già posseduto dall’intelletto che lo applica alla molteplicità delle intuizioni, detto diversamente consiste nell’applicazione delle forme trascendentali; 2. il giudizio riflettente, che comprende il particolare (rappresentazioni sensibili), ma richiede la ricerca dell’universale; appunto si deve riflettere, e questo principio universale della riflessione significa le Idee della Ragione nel loro impiego regolativo. Per esempio il principio guida a priori per giungere proprio all’universale nei giudizi riflettenti è il postulato della finalità intrinseca della natura. Sussistono due modi per intendere e scoprire questo finalismo naturale: la contemplazione del bello, si ha così il giudizio estetico, e il sentimento del Sublime.
Il tentativo è quello di trovare il finalismo naturale (aspetto teleologico), di rendere il giudizio riflettente universale; tale tentativo non amplia la conoscenza sulla natura (concepita meccanicamente secondo i principi di Newton). Si cerca così una finalità nell’ordine naturale intesa come principio di organizzazione interno (organicismo). Si parla principalmente di estetica, ovvero la scienza della sensazione; tuttavia le forze ordinatrici del giudizio sono la natura e la bellezza, che provocano l’esigenza di universalità in chi le assiste. Le prime analisi da svolgere riguardo la bellezza e l’arte: la prima è apparenza, è soggettiva; la seconda viene paragonata a un gioco libero dalle necessità, senza alcuno scopo ultimo. Parlando di bellezza, l’arte non ha che fare con il vero, come sosterrà invece Hegel, ma consiste in una nostra reazione, è come un gioco che esprime il libero e armonico esercizio della facoltà indipendentemente dall’avere uno scopo; come nel caso della poesia dove Kant sostiene che in essa vi siano le facoltà spirituali, mosse vivacemente, con la fantasia, senza alcuna intelligibilità delle immagini stesse.
Il bello non possiede una valenza conoscitiva, la facoltà del giudizio estetico è infondata, libera; come infondati e liberi sono l’agire morale e il soggetto stesso; la bellezza perciò non è una pura sensazione, in quanto non sarebbe di per sé universale (il suo giudizio), né un concetto, seppur confuso, in quanto consisterebbe in una forma di conoscenza. Qui interviene la distinzione dei giudizi accennata ove giudicare significa sussumere il particolare nell’universale; attraverso una regola oggettiva fornita dall’intelletto (giudizio determinante), oppure attraverso un principio soggettivo, fatto valere dal sentimento quando la forma di un oggetto corrisponde alle sue esigenze (giudizio riflettente). Giudizio riflettente poiché vincolato a considerazioni formali che non intaccano l’essenza dell’oggetto. Il bello è riconosciuto dal gusto, piace senza un particolare interesse, piace necessariamente anche in assenza di concetto, piace universalmente; si ha così la percezione, soggettiva, di armonia delle parti (il piacere), dovuta per esempio da un’opera d’arte, creata dal genio artistico.
Il genio consiste in una disposizione innata cui attraverso la natura dà la regola all’arte, l’arte è bella poiché ha l’apparenza della natura, e non secondo una libertà del soggetto (ivi sarà la grande differenza con Hegel per il quale l’arte è di per sé libertà assoluta), ma secondo schemi della natura, addirittura come un naturale prolungamento della medesima. Tuttavia ciò significa che la natura dà in qualche modo a sé la legge e dunque si autodetermina: la natura significa libertà. Ovvero, v’è una convergenza tra la concezione della libertà e la natura stessa.
Nel Sublime invece la natura e la libertà sono in disaccordo poiché la natura schiaccia l’individuo, schiaccia la sua autonomia provocandogli un sentimento non di piacere, ma di pena, impedendo il libero gioco delle facoltà. Ciò accade sia nel sublime matematico, ove la natura esibisce eventi che superano le capacità umane, sia nel sublime dinamico, ove la natura si esprime con una forza alla quale l’uomo non può far nulla. Tuttavia per quanto un evento possa superare le capacità umane, come l’infinità dello spazio, esso viene concepito proprio dall’uomo, tale Idea è posseduta dal soggetto pensante (in questi discorsi si collocherà Hegel); e per quanto una forza naturale possa essere mastodontica non sarà mai così tenace da dover costringere l’uomo a scelte immorali o a dover commettere il male. L’accordo fra l’uomo e la natura viene spezzato ma, come posizionato, in un livello più alto e ciò che sembrava un’umiliazione dell’individuo significa un’esaltazione e una conferma della sua autonomia. Particolarità: il genio riesce a esprimere le regole della natura attraverso la libertà dell’arte, rendendo l’arte libera; mentre il Sublime riesce a essere libero dal momento in cui entra in contatto con queste regole.
Concludendo, la natura, invece, è ordinata, unica e trascendentale, quindi oggettiva. Il contatto tra puro e pratico si trova nel sentimento, provocato da esperienze soggettive forti, non scientifiche. Tale sentimento può portare al Sublime: quando lo si prova avviene l’annientamento totale dell’essere e si erge la propria identità, nel piacere negativo dell’informe e dell’illimitato. Quando si viene scossi con tanta potenza, il nostro stato soggettivo ha la necessità di essere condiviso con l’altro e quindi di diventare oggettivo, universale per questo il giudizio estetico (del bello e del Sublime) sono universali. In aggiunta esistono due “tipi” di Sublime; si ha il sublime matematico (squilibrio tra immaginazione e ragione) e il sublime dinamico (contemplazione della potenza della natura che genera timore). Evocando, in questi discorsi, Cicerone:

dal De amicitia

Si quis in caelum ascendisset naturamque mundi et pulchritudinem siderum perspexisset insuavem illam admirationem ei fore quae iucundissima fuisset si aliquem cui narraret habuisset.

Da riflettere che per Kant la vera forma di bellezza risiede nel sublime naturale e in poche opere d’arte; per Hegel, invece, il bello appare in qualsiasi forma d’arte (architettura, scultura, pittura, musica, poesia, dalla più concreta alla più astratta) ed è quasi completamente assente nella «noiosa natura».

Da la Critica del giudizio

Il bello della natura si riferisce alla forma dell’oggetto, la quale consiste nella limitazione. Il sublime invece può riferirsi anche ad un oggetto informe, in quanto in esso, o per suo motivo, sia rappresentata un’illimitatezza a cui si aggiunga il pensiero della sua totalità. L’oggetto stesso può essere rappresentato come sublime in duplice modo: sublime matematico e sublime dinamico. Noi diciamo sublime matematico ciò che è assolutamente grande, ciò che è grande al di là di ogni comparazione. Se poi la Natura deve essere giudicata da noi dinamicamente sublime, deve essere rappresentata come tale da provocare timore. Il piacere del sublime è diverso da quello del bello; questo infatti produce direttamente un sentimento di esaltazione della vita; quello invece è un piacere che ha solo un’origine indiretta, giacché esso sorge dal sentimento di un momentaneo arresto delle energie vitali, seguito da una più intensa loro esaltazione. Possiamo aggiungere alle formule precedenti della definizione del sublime anche questa: Sublime è ciò di cui la sola possibilità di esser pensato dimostra la presenza di una facoltà dell’animo nostro che trascende ogni misura sensibile. Il sentimento del sublime nella Natura è dunque rispetto per la nostra propria destinazione, che ci rende per così dire intuibile la superiorità della determinazione razionale delle nostre facoltà conoscitive anche sul massimo potere della sensibilità. La sublimità dunque non sta in nessuna cosa della Natura, ma solo nell’animo nostro, in quanto noi possiamo riconoscerci superiori alla Natura.

Compendio stilato dalla studentessa Rachele MasciocchiLiceo Scientifico Statale Antonio Labriola (RM), e dal docente Giancarlo Petrella.

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