La volontà buona come fine della ragione

Quando Kant tratta dell’imperativo categorico presuppone un bene insito nell’essere umano, una disposizione al bene, il quale utilizza la sua libera volontà per autoregolarsi. Sono la ragione e la moralità collettiva a rendere gli uomini uguali; introduce Kant così la legalità: l’uomo ha piena responsabilità delle proprie azioni e può agire libero, indipendentemente dalle conseguenze. Tutto ciò si basa su di una volontà svincolata dall’esterno e che è in grado di elevare l’uomo oltre i limiti naturali, sensibili.

Ne La religione entro i limiti della sola ragione, le determinazioni al bene dell’uomo, che possono essere traviate, sono: all’animalità, in quanto essere vivente, all’umanità, in quanto essere vivente e dotato di ragione, alla personalità, in quanto essere ragionevole suscettibile di imputazione. Nella prima vi sono i vizi di rozzezza della natura, della bestialità, deviazioni dallo scopo naturale; altri vizi sono l’intemperanza, la lussuria, il disprezzo selvaggio delle leggi (nei rapporti con gli altri). Si sottolinea che la disposizione all’animalità è di tre tipi, atti alla conservazione personale; alla propagazione della specie proprio mediante l’istinto sessuale insieme all’amore della prole; alla comunione con gli altri cioè l’istinto sociale. A tali disposizione si innescano i vizi già accennati. L’amor di sé determina il fatto che l’uomo non sia un «essere puro», cioè non tentato dalle inclinazioni; dunque l’amor di sé non potrà mai essere considerato quel germe di bene puro che possa giustificare perché l’uomo non sia un essere diabolico, pur tale germe sussiste e rimane incorrotto, indistruttibile.
Pur nella Fondazione della metafisica dei costumi si sostiene che l’idea di una volontà buona in sé, che non si cura dei risultati, non sia un paradosso, perché è in accordo proprio con i fini della natura la quale ha posto il principio della buona volontà non già nell’istinto (che mira all’utilità, alla felicità), ma nella ragione, cioè in quel principio che siccome determina la volontà prende il nome di ragion pratica, mirando al bene per se stesso. La volontà certamente viene solleticata dall’istinto, ma è guidata dalla ragione, dalle massime che l’uomo si pone. Si comprende agevolmente che per quanto la ragione imponga le proprie prescrizioni, l’uomo si lascia attrarre dalle inclinazioni sensibili, dall’aspirazione alla felicità, e si ha così una dialettica naturale, spontanea, cioè una tendenza a sofisticare contro le leggi proprie del dovere.
Anche la seconda disposizione, all’umanità, può essere considerata dell’amore di sé, ma comparato: perciò si richiede la ragione, la riflessione. Ci si giudica infelici o felici in confronto con gli altri. Prestate attenzione al nostro continuo muoverci e affannarci per acquisire un valore presso l’opinione altrui cercando l’uguaglianza, detestando la supremazia; la preoccupazione costante che altri possano acquisirla, abusare di ciò. Questo timore giustifica la volontà di acquisire, premeditatamente, noi quel potere. Mentre i vizi sono palesi e derivano da inclinazioni, abbiamo la gelosia, le nimicizie; vizi non in sé, ma nati, come detto, dal confronto con gli altri. La natura ci diede questo principio emulativo quale motore del proprio miglioramento, stimolo alla cultura che non significa necessariamente odio e disprezzo dell’altro. Su questa disposizione all’umanità possono nascere i vizi di cultura che significano nel loro più alto grado, la cattiveria: un male che nasce dall’invidia, dall’ingratitudine, dal piacere dei mali altrui. Sono vizi satanici.
Della terza disposizione ne abbiamo già parlato (la massima come regola dell’arbitrio); va ricordato che nella prima disposizione non v’è la ragione come base, nella seconda v’è una ragione pratica ma che sottesa a moventi, nella terza si ha la ragion pratica come incondizionatamente legislatrice. Queste disposizioni significano disposizioni al bene e non si oppongono alla legge morale, ma favoriscono il compimento del bene e sono originari in quanto penetranti la natura umana: elementi costitutivi necessari, anche nella loro congiunzione, a far si che un tale essere, l’uomo, si dia.
Nella Fondazione della metafisica dei costumi, sussiste, a riguardo della volontà, un’analisi dell’argomento teleologico; analisi dalla quale si può ricavare che il finalismo della natura consiste nella costatazione che tutto ha un fine o è un fine. La ragione si rivela avere come fine di generare la volontà buona ‒ non la felicità dell’uomo, né tanto meno il progresso scientifico ‒ e la volontà buona è di per sé un fine; una volontà «sommamente degna di stima per se stessa e buona senza fini ulteriori».
Volontà che in quanto buona, e fine della ragione, non ha fini fuori di sé. Ribadendo, è una constatazione il fatto che la volontà buona non abbia fine fuori di sé, mentre il fine stesso della ragione non consiste nella felicità, ma nel generare la volontà buona. Perché la natura ci ha dotati di ragione? se non per produrre la buona volontà, nostra destinazione; altrimenti un istinto naturale, all’ottenimento degli oggetti e alle soddisfazioni dei bisogni, avrebbe giovato maggiormente.

stilato dal docente Giancarlo Petrella

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *