La massima come regola dell’arbitrio

Un uomo è moralmente cattivo non tanto per le azioni, sibbene per le intenzioni ovvero in quanto sussistono massime esecrabili in lui; perciò come si può sostenere a priori che un uomo, in senso generale o meno, sia cattivo? Che lo sia per natura? Sussiste in lui un principio malvagio? Una massima cattiva che è il fondamento delle altre massime, che le corrompe? La questione diventa paradossale pur se si intende natura come l’uso della libertà umana; dunque l’uomo è per natura cattivo? Si aggiunga che l’ipotetico fondamento malvagio, tuttavia, è esso stesso un atto di libertà altrimenti sussisterebbe un determinismo. La ragione del male perciò non può trovarsi in nulla che costringa l’arbitrio, né tantomeno in un istinto naturale; ma in una regola che l’arbitrio da a sé, come uso della propria libertà, cioè in una massima.

Inoltre, non è possibile domandarsi la ragione del perché un uomo scelga quella massima piuttosto che l’altra; l’uomo esprime un fondamento originario per il quale adotta massime buone o cattive (opposte alla legge). La libertà è un abisso: si ha l’intuizione arcana di Eraclito, l’anima ha un logos da non poter essere mai del tutto detto. Libertà che non si dà come dato empirico, dedotta dall’esperienza, ma quale dato della ragione nel suo essere ragion pratica; l’uomo si comporta secondo una regola che lui stesso ha preso, che lui ha voluto, che si è dato: nessun movente può determinare la libertà se non è stato assunto nella propria massima. Il fondamento rimane prima di ogni esperienza ed è intelligibile, questa suprema massima del libero arbitrio, tale unità della massima suprema congiunta all’unità della legge alla quale si riferisce, si può intendere affinché si comprenda che un giudizio intellettuale puro sull’uomo si basi sul principio che escluda il bene dal male, non v’è via di mezzo; ma nel giudizio empirico fondato su fatti sensibili, quali azioni o omissioni, vi sono compromessi: da un lato vi è la posizione negativa dettata dall’indifferenza (anteriore all’educazione?), dall’altro la positiva mescolanza per cui si è buoni e cattivi – tale giudizio empirico può giudicare la moralità umana solo nel mondo fenomenico ed è subordinato al giudizio intellettuale per il quale il bene e il male restano separati.
In Kant l’individuo è sempre imputabile; ma che cos’è una massima? Una regola che l’arbitrio dà a sé per l’uso della propria libertà; e – come visto – per Kant non sono tanto le azioni (che certamente hanno un valore esterno), ma le massime a rendere un uomo cattivo, l’interiorità; si rifletta che anche i malvagi «commettono» del bene. Le massime sono il fondamento delle azioni, semplificando il perché si agisce in quella data maniera e, a loro volta, non presentano un perché in un senso determinante se non proprio la libertà, l’arbitrio. Le massime sono preesistenti e non hanno un fondamento, naturale (come l’istinto) o altro, sono svincolate da oggetti (non siamo più nell’ambito fenomenico); perciò sostenere che l’uomo sia cattivo (o no) lo si intende sia nella specie, in un senso originario e imperscrutabile – in cui l’individuo ne è l’espressione, – sia nell’individuo stesso, dando comunque la colpa (o il merito) al proprio libero arbitrio, altrimenti non sarebbe riprovevole (o meritevole). La libertà consiste in un grund abgrund.
Ritengo che la Monarchia costituzionale garantisca le liberta personali; ecco, questa opinione, considerazione, è una massima che come tale individuale. Se sei ammalato, prendi tale medicina; qui si ha un imperativo ipotetico, ha già una valenza più universale. Se voglio arricchirmi (ipotesi), devo mettere da parte dei soldi per esempio lavorando di più o rubando etc.; dunque non c’è alcun obbligo morale, l’importante è che vi sia una regola da seguire per il raggiungimento del fine preposto (l’arricchirsi). Un imperativo categorico, invece, seppur in teoria non dovrebbe avere alcun contenuto, e dopo amplieremo il discorso, potrebbe essere il seguente: non si devono sterminare i bambini. La legge morale è essenzialmente vuota, l’imperativo categorico solo formale; tuttavia, secondo chi scrive, si possono desumere dei “contenuti”.
Dalla prima parte de La critica della ragion pratica si desume che i princìpi pratici sono proposizioni che esplicano una determinazione della volontà, in cui sussistono molteplici regole. Principi che sono o massime (soggettivi) o leggi pratiche (oggettivi); a seconda se la condizione sia considerata dal soggetto come valida solo per la propria volontà o valida per ogni essere razionale. Esistono leggi pratiche se si ammette che la ragione pura possa contenere un fondamento pratico, un fondamento atto a determinare la volontà. La regola pratica consiste in un prodotto della ragione pratica pura (alias della libertà), prescrive operazioni come mezzi per attuare l’effetto; per un essere in cui la ragione non rappresenti da solo ogni fondamento di determinazione della volontà, tale regola è un imperativo, una regola contenente un dovere, che esprime necessità di oggettivazione. Diversamente se la ragione determinasse integralmente la volontà, l’azione susseguiranno interamente la regola.
Gli imperativi valgono quindi oggettivamente; essi o sono ipotetici o categorici ovvero o determinano le condizioni della causalità dell’essere razionale solo rispetto all’effetto e al suo raggiungimento (dunque contengono mere prescrizioni) oppure determinano esclusivamente la volontà (basti o meno a ottenere l’effetto). Tali imperativi categorici rappresentano unicamente leggi pratiche.
Il dovere richiede un temperamento da certosino; la legge, per il tramite della sua maestà, suscita un profondo rispetto, non per una paura che allontana, né per una seduzione che invita alla confidenza, ma in quanto genera stima del sottomesso verso il signore e poiché questo signore è in noi stessi, esso suscita il sentimento della sublimità del nostro destino il quale ci rapisce più di ogni bellezza.
Proseguendo, la Critica della ragion pratica parte dalla constatazione del fatto che ogni uomo possiede una ragione e di conseguenza una morale, definibile a priori (il volere non deriva dall’esperienza): non sussiste una morale “valida” del singolo, ma un dovere universale che ha origine dall’autonomia della ragione che significa l’autonomia dell’uomo. Per questo non può sussistere una soluzione morale intermedia: la legge morale deve essere precisa e stabile. A partire da questo discorso si colloca l’imperativo categorico, in quanto la ragione esige la necessità di un dovere attraverso l’imperativo, agisce non “per”, ma “secondo” il dovere (Pflicht). Il dovere per il dovere! Questo rispetto coincide col sentimento morale, che diventando un movente dell’arbitrio si costituisce come scopo stesso della disposizione naturale. Ricapitolando e amplificando: il rispetto e la personalità sono legati infatti:

da La religione entro i limiti della sola ragione

La disposizione alla personalità è la capacità di sentire per la legge morale un rispetto che sia un movente, sufficiente per se stesso, dell’arbitrio. Questa capacità di provare semplicemente rispetto per la legge morale in noi, sarebbe il sentimento morale che, per se stesso, non costituisce ancora uno scopo della disposizione naturale, ma lo diventa solo in quanto esso è un movente dell’arbitrio.

Il buon carattere sarà la disposizione dell’arbitrio a prendere come movente il sentimento morale; carattere che può venire acquisito proprio perché v’è una naturale disposizione di per sé totalmente pura, scevra da qualsiasi cosa di cattivo. La personalità si costituisce come disposizione particolare, non già presente nel concetto di umanità; l’essere più razionale potrebbe comunque avere dei moventi particolari per il proprio arbitrio, moventi derivati da oggetti dell’inclinazioni; potrebbe ragionare a lungo sia sui modi di questi moventi sia sulla somma stessa dei moventi, senza raggiungere mai qualcosa di simile alla legge morale, che essa stessa è movente, comanda in modo assoluto ed è movente supremo. Ciò significa che se questa legge non fosse innata, con nessun artificio retorico o profondità di riflessione, riusciremo a coglierla; ed è la stessa legge morale che ci rende consapevoli della nostra indipendenza dagli eventi, che ci dona l’idea di libertà, che ci rende coscienti dell’indipendenza dell’arbitrio dalla determinazione per mezzo di qualsiasi movente – siamo consci della nostra libertà – e, tuttavia, ci rende consapevoli dell’imputabilità delle nostre azioni.
Nella Fondazione della metafisica dei costumi, invece, il carattere risulta essere la specifica costituzione della volontà che deve fare un certo uso dei doni naturali: per esempio, qualità del temperato (coraggio, risolutezza, costanza etc.) o i talenti dello spirito (intelletto, perspicacia, giudizio etc.); o i doni della fortuna (ricchezza, salute etc.). Così ogni dono naturale o della fortuna, non risulta un bene in sé, ma solo se sotteso a una volontà buona.

stilato dal docente Giancarlo Petrella

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