Della cattiveria umana

L’uomo anche il peggiore, non trasgredisce per disubbidienza, per spirito diabolico, la legge morale, a prescindere da quali siano le sue massime, anzi la legge gli si impone, in virtù della disposizione morale stessa, in quanto uomo; e se nessun altro movente lo spingesse in senso contrario, assumerebbe nella propria massima suprema, come principio di determinazione dell’arbitrio, la legge e perciò sarebbe moralmente buono. La legge morale è quel principio universale che attua l’Homo sum, humani nihil a me alienum puto.
La legge morale e l’amore di sé, assunti nelle massime, tuttavia non possono sussistere l’uno accanto all’altro, ma l’uno deve essere subordinato all’altro, come alla sua condizione suprema. Ponendo così come condizione del compimento della legge morale il movente dell’amore di sé e le sue inclinazioni, significa invertire l’ordine morale dei moventi, costituendosi, facendo in tal guisa, come un uomo cattivo. Entrambi i moventi presi separatamente, la legge morale e l’amore di sé (principio, innocente, per cui vengono accolti i moventi della sensibilità, in virtù della disposizione naturale), sono condizione sufficiente a determinare la volontà. La differenza delle massime non dipende dalla differenza dei moventi, materia di quelle – se non fosse così l’uomo sarebbe e moralmente buono e moralmente cattivo insieme. Ciò è in contraddizione in Kant che lo spiega nell’Introduzione al La religione entro i limiti della sola ragione.

La carne, la corporeità, ci inducono a «peccare» inevitabilmente; ancor di più l’amor proprio, l’amore su di sé condizionato dall’animalità, ci impediscono l’esplicazione della nostra destinazione morale, condizione che non può essere soppressa. Nelle parole del Sommo Filosofo: In nobis autem lumen intelligibile est obumbratum per coniunctionem ad corpus et ad vires corporeas, et ex hoc impeditur, ut non libere possit veritatem etiam naturaliter cognoscibilem inspìcere.
Le inclinazioni non hanno alcun rapporto immediato con il male, bisogna specificare, anzi danno occasione di manifestarsi alla virtù (l’intenzione morale nella sua forza). Quanto detto certamente non deve essere colto come scusante, come giustificazionismo, tuttavia è un monito ben presente. Quell’animalità che, nel caso della sessualità, viepiù ci chiama a un mondo lontano dalla civiltà; ma anche nel caso della soddisfazione dei beni, laddove la civiltà si impone a mangiare a determinate ore, a determinate condizioni, determinate cose, nonostante il bisogno primario di nutrirsi, torna come protagonista quest’animalità. Tuttavia dobbiamo supporre questa tendenza come vinta, in quanto non si ha la malvagità, l’intenzione nell’uomo non è diabolica, ma perversità, sicché si ha il cuore cattivo. Tuttavia l’uomo può venir tentato in quanto è in segreta intelligenza con il principio che corrompe le massime; dunque pur se la corruzione fosse concepibile quale esterna, si rivelerebbe interna all’umano essere.
Il male radicale corrompe il fondamento di tutte le massime, in quanto tendenza naturale non può essere distrutto – non importa quale massima si adotti, nel momento in cui si è uomini, si è vincolati all’amor di sé. Eppure, questa tendenza, può essere vinta in quanto l’uomo deve essere libero nelle proprie azioni. Qualsiasi azione si compia, pur se la massimamente buona, di per sé, nelle intenzioni, può esser mista a moventi estranei alla legge; persino la compassione è un motivo estraneo alla legge in quanto vincolato a un sentimento, a una disposizione certamente benefica, buona, ma non buona in sé.
Il carattere empirico può esser buono, non quello intelligibile, quando le unità delle massime, grazie alla ragione che adopera tale unità in generale, tipica della legge morale, solo per introdurre nei moventi inclinazioni sotto il nome di felicità: il principio della veracità ci libererà dall’ansia del mentire continuamento; di certo, ciò non è buono in sé. La tendenza invece all’inversione si chiama male radicale e corrompe il fondamento di tutte le massime.
Non v’è un’origine temporale alle azioni libere nel senso che sfuggono a eventi fattuali, come si trattasse di effetti d’ordine fisico; è contradditorio cercare un ordine temporale anche per le attitudini morali dell’uomo poiché esso si esprime nell’uso della libertà che bisogna ricercare, unicamente, in rappresentazione razionali come anche nel caso del motivo determinante il libero arbitrio in generale.
Si ha una certa eccellenza nella propria disposizione quando si sacrifica ogni interesse personale e si pone come scopo ciò che si apprezza di più che della vita stessa, per esempio in alcune culture l’onore del valore guerriero. Si sottolinei che l’intenzione ferrea di compiere il proprio dovere, la virtù, è nelle proprie conseguenze benefattrice più della natura o di qualsiasi arte. Ovvero, bisogna fare del bene, anche volentieri, cioè provando un umore gioioso nell’anima, ovvero avendolo raccolto nella propria massima. Il carattere estetico del temperamento della virtù è essenzialmente coraggioso, quindi gaio, in quanto il mesto e accasciato significa uno stato d’animo servile che esprime un odio nascosto per la legge. La gaiezza del cuore, nel compimento del proprio dovere, e non nella compiacenza di riconoscerlo, indica la purezza dell’intenzione virtuosa anche nella devozione, che non consiste nell’automortificazione del peccatore pentito, che è soltanto un rimprovero interiore per aver mancato una regola, ma nel fermo proposito di agire meglio in avvenire.

Della naturale tendenza al male
Il fondamento soggettivo, contingente per l’umanità in generale, della possibilità di un’inclinazione, di una brama abituale (concupiscentia), consiste nella tendenza (propensio); mentre una disposizione è innata, la tendenza può non esserlo, infatti non è corretto rappresentarla come tale, essa è acquisita, se è buona, o contratta se è cattiva. Una tendenza è una predisposizione a bramare un godimento, producendo così un’inclinazione a tale godimento possibile proprio quando il soggetto ne avrà fatto conoscenza. Fra la tendenza e l’inclinazione, che come detto suppone una conoscenza dell’oggetto desiderato, v’è l’istinto, il bisogno di qualcosa senza che se ne abbia un concetto. Dopo l’inclinazione come ultimo grado della facoltà appetitiva, v’è la passione, un’inclinazione che esclude ogni impero su di sé; differisce dall’affezione poiché quest’ultima appartiene al sentimento di piacere o dispiacere.
La tendenza al male, il male morale, il male radicale (innato nella natura umana che significa tendenza depravata) è tale solo come determinazione del libero arbitrio, il quale è buono o cattivo in base alle massime che adotta; tale male morale consiste nel fondamento soggettivo della deviazione delle massime dalla legge morale. Se viene ammessa come inerente all’uomo per conseguenza del carattere della sua specie, essa si può chiamare una naturale tendenza dell’uomo al male. Si aggiunga che il buon cuore o il cattivo cuore significa la capacità o l’incapacità dell’arbitrio, derivante per l’appunto da questa tendenza naturale, ad accogliere nella sua massima la legge morale.
Questa tendenza al male, questa debolezza, è di tre gradi: fragilitas, impuritas e vitiositas; ovvero l’incapacità di attuare la legge che in thesi, nell’idea, è un movente invincibile, in hypothesi quando la massima deve essere seguita, soggettivamente, è debole quale movente paragonato appunto alle inclinazioni: video meliora proboque deteriora sequor. L’impurità o improbitas è la situazione ove non si ha accolto la legge morale come solo movente sufficiente, ma forse sempre si hanno bisogno di altri moventi, per determinare l’arbitrio per ciò che concerne il dovere. Azioni secondo il dovere non sono eseguite per il dovere. Infine la vitiositas, malvagità, pravitas, o corruzione (corruptio) del cuore umano è la tendenza dell’arbitrio a massime che subordinano il movente tratto dalla legge morale ad altri moventi, non morali. Può anche chiamarsi perversità (perversitas) del cuore, perverte l’ordine morale relativamente ai moventi di un libero arbitrio. Sebbene possano commettersi azioni buone, secondo le leggi (azioni legali), la maniera proprio di pensare è corrotta nella propria radice, per quanto riguarda l’intenzione morale, per questo l’uomo è indicato come cattivo. Proprio perché questa tendenza al male negli uomini è universale, intimamente legata alla natura umana, la tendenza al male degli uomini è attribuibile anche al migliore. Si ricordi che l’uomo si occupi spesso della legalità esteriore delle azioni, non della deduzione a partire dalla legge.
Che l’uomo sia libero significa che possiede il principio primo per il quale accetta le massime delle sue azioni: cattiveria e bontà sono innate ovvero l’uomo ne è l’autore; l’uomo non può essere assolutamente cattivo, ma può autodeterminare la propria volontà volgendola verso il male. Non è un oggetto determinante il libero arbitrio la causa del principio del male, né in un’inclinazione la quale è naturale, dettata dalla natura, perciò non imputabile. Il principio per il quale le massime vengono corrotte non può essere dedotto dall’esperienza, nonostante il male si esplichi nel mondo, ma deve essere a priori, una tendenza innata. Le inclinazioni non hanno alcun rapporto immediato con il male; esse sono indisciplinate ma sincere: non sono di per sé buono o cattive, anzi sono buone considerate in se stesse in quanto non riprovevoli, inoltre, proprio per questo, la loro esistenza non è imputabile all’uomo; mentre la tendenza al male è imputabile all’uomo, significa la moralità del soggetto, si ha così la colpa; colpa che non sussisterebbe se la radice della morale fosse vincolata in una dimensione istintuale. L’armonia invece delle inclinazioni, significa la prudenza.
La tendenza al male non può venir giustificata empiricamente, ma solo mediante una deduzione a priori della disposizione morale stessa, la quale non perviene a un principio positivo di questa tendenza; se si avesse un principio di inversione dei motivi delle massime significherebbe affermare proprio la perversione umana citata e il male diverrebbe assolutamente necessario.

stilato dal docente Giancarlo Petrella

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