Abelardo, uno sguardo d’insieme

La vita di Pietro Abelardo (1079-1142) compendia emblematicamente i mutamenti e le irrequietezze del XII secolo, Secolo ricco di spiriti colti. Narrò della sua vita nella Historia calamitarum mearum. Nacque nel borgo di Pallet vicino a Nantes, da Lucia, forse di origine bretone e da Berengario, forse di origine poitevina, miles appartenente alla nobiltà minore, il quale voleva che anche i suoi figli seguissero il suo esempio. Rinunciò ai beni e alla carriera per dedicarsi agli studi a Loches (nella Loira) nella scuola di Roscellino, che nel 1092 venne condannato per eresia a Soissons e costretto a un trasferimento in Inghilterra. Abelardo si recò poi a Parigi, dove criticò le tesi sugli universali di Guglielmo di Champeaux e, di conseguenza, tra i due emersero profonde divergenze. Abelardo decise così di fondare una propria scuola, dapprima a Melun e in seguito a Corbeil.

Ammalatosi per il troppo lavoro, fece ritorno nel 1108 a Parigi per studiare retorica presso la scuola di Guglielmo di Champeaux a Saint-Victor, dove fu di nuovo in contrasto col maestro. Abelardo, in una disputa pubblica, lo costrinse a modificare la sua teoria sugli universali; questa capitolazione rovinò il maestro, la cui scuola si svuotò a vantaggio di quella di Notre-Dame di Abelardo – rimase in lui lo spirito militare paterno; c’è, non a caso, da sottolineare che alcune espressioni Abelardo le desuma proprio dal linguaggio militare (quale materia pugnae). Di contro, Guglielmo mosse gravi accuse verso Abelardo e tornò a insegnare a Melun e, nel 1115, a Sainte-Geneviève.

Pure con il grande Anselmo, maestro di teologia della scuola di Laon che lui frequentò, ebbe dei contrasti in merito al glossare Ezechiele. È in questo periodo che avvenne il famoso incontro con Eloisa, nipote del canonico di Notre-Dame Fulberto; questi lo ospitò, affidandogli l’educazione della nipote. La vicenda è nota, i due divennero amanti, Fulberto li scoprì, Eloisa in attesa e condotta in Bretagna dalla famiglia di Abelardo; ivi partorì Astrolabio (rapitore delle stelle). Per placare l’ira di Fulberto, ritorneranno a Parigi dove si sposeranno in segreto; Fulberto però divulgò la notizia, ma Abelardo, temendo di perdere i privilegi, smentì ed Eloisa si ritirò nel monastero di Argenteuil. Allora i parenti di lei, ritenendosi ingannati, si vendicarono facendolo evirare nel cuore della notte da alcuni sicari, due dei quali, catturati, vennero a loro volta castrati e accecati, mentre Fulberto fu privato per breve tempo dei suoi beni.

Abelardo prese così l’abito monastico tra il 1117 e il 1118 a Saint Denis, continuando ad insegnare logica e teologia in una scuola aperta della Champagne. Tra il 1120 e il 1121 scrisse la Theologia Summi Boni, la prima versione del Sic et non, e per questo venne attaccato dai maestri della scuola episcopale di Reims per le tesi sulla Trinità; venendo di poi convocato nel 1121 nel Concilio di Soissons, dove l’arcivescovo e il legato pontificio Conone di Preneste lo condannarono a bruciare il libro e a rinchiudersi nel monastero di Saint-Médard di Soissons. Da segnalare che era talmente temuto per il suo rigore retorico che gli impedirono di parlare al processo. Passò quindi da un’abbazia ad un’altra, prima a Saint-Denis, dove le sue critiche sulla tradizionale identificazione del patrono San Dionigi lo posero in urto con i monaci, poi fuggì a Provins nel priorato di Saint-Ayoul; ma è a Quincey che si ritirò nella sua proprietà presso Nogent-sur-Seine dove, grazie ad una donazione, venne fondato un oratorio-scuola dedicato alla Trinità, denominato successivamente Paracleto, sovvenzionato in seguito dagli allievi.

Tra il 1125 e il 1128 lasciò il Paracleto per diventare abate di Saint-Gildas di Rhuys nella diocesi di Vannes in Bretagna. Riprese i contatti con Eloisa, divenuta nel frattempo Badessa di Argenteuil, invitandola a stabilirsi con le monache al Paracleto, dopo che l’accordo del vescovo di Parigi e del legato papale aveva espulso le monache da Argenteuil per il loro comportamento scandaloso. Nel 1131 dona il Paracleto ad Eloisa, mentre Bernardo di Clairvaux critica la versione del loro Pater noster. I testi scritti in questo periodo: il Dialogus inter Philosophum, Iudaeum et Christianum e i Sermones che vengono raccolti e dedicati ad Eloisa. 

Le notizie successive al 1136 non vengono più raccontate da Abelardo stesso; tuttavia sappiamo che tenne nuovamente una libera scuola di dialettica e teologia a Parigi, dove avrà come allievi Arnaldo da Brescia e Giovanni di Salisbury. È in questi anni che scoppiò l’ostilità con Guglielmo di Saint-Thierry che, dopo aver letto la sua Theologia Scholarium, scrive a Goffredo di Chartes e a Bernardo di Chiaravalle per intervenire. Al concilio di Sens nel 1140, Abelardo venne condannato e si ritirò presso Pietro il Venerabile nell’abbazia di Cluny.

L’opera di Abelardo è sia teologica che filosofica. La sua concezione della filosofia e della teologia è una ricerca razionale continua, un combattimento senza tregua contro dubbi ed eresie. È una condizione di guerra necessaria, voluta da Dio per nutrire negli uomini una fede consapevole e che richieda alla ragione armi sempre nuove. La ricerca che appronta è riconducibile alla stregua di un confronto dialettico, ed è in particolare il cuore del rapporto maestro-allievo. Il compito/dovere dell’allievo sarebbe infatti quello di inquirere, domandare, secondo il modello ideale del Cristo bambino del prologo del Sic et non, modello impersonato positivamente in Abelardo giovane. Il maestro ha il compito di accettare questo confronto, e di rispondere alle eventuali domande, risolvendo le questioni. Il modello negativo, ovvero quello della passività di chi si accontenta della ripetizione del sapere acquisito, viene incarnata da Abelardo nel suo oppositore Anselmo di Laon. Il maestro deve conoscere prima di predicare, sapere razionalmente quello che insegna e rispondere accettando il confronto; sottraendosi al confronto si viene meno al proprio ruolo, come fanno Anselmo per incapacità e Guglielmo poiché preferisce consapevolmente le vie oblique dell’inganno.

Nella sua opera di magister Abelardo incontrò l’opposizione della Chiesa e con lo scritto Ethica seu Scito te ipsum, dove si delinea una morale dell’intenzione e non dell’azione, del libero arbitrio e non dell’accettazione passiva, giunge a scontrarsi con Bernardo da Chiaravalle. Al figlio Astrolabio dedicò un’opera tarda, scritta tra il 1141 e il 1142, il Carmen ad Astrolabium o Insegnamenti al figlio, dove vengono riportati una serie di precetti, sentenze e comportamenti da adottare per seguire rettamente un modello di vita cristiana. L’influenza di Abelardo fu significativa; va sottolineato che nella sua esposizione non pretende un’accettazione passiva della dottrina o dell’autorità secondo lo schema canonico del tempo; piuttosto suggerisce la necessità di una comprensione e adesione personale alle regole. Tali insegnamenti pertanto si inscrivono in una cornice didattico-pedagogica di rilevante importanza. Per Abelardo infatti la persona si mostra consapevole e aperta al consenso razionale; inoltre, l’insegnamento della fede, quindi a impartire un’educazione religiosa e cristiana, viene ad identificarsi col ragionare. Non a caso Abelardo ha sempre criticato il rigorismo ascetico del suo tempo, contrario alle inclinazioni della natura umana; con le sue riflessioni si oppone anche al legalismo etico, rifiutando ogni conformismo. Il valore della persona è dato dalla virtù propria della dignità morale, non dal carisma del potere di cui uno è investito. Questo modo di esprimersi lo portò a contrasti con le gerarchie ecclesiastiche. Eccovi alcuni passaggi del Carmen.

Sii teso ad apprendere più che a insegnare, poiché insegnando sei utile agli altri, ma solo imparando farai il tuo bene; e non abbandonare lo studio fino a quando non avrai la certezza di non aver più nulla da apprendere.

Subisci il fascino di ciò che è detto e non di chi lo dice, evitando in tal modo l’accettazione passiva del sapere, e preoccupati che il tuo docente non ti impedisca di progredire per tuo conto, tenendoti legato a sé per amore.

Come è vero che ci si nutre del frutto e non delle foglie del melo, così anteponi sempre il significato al significante e ricorda: la persuasione ha bisogno di catturare gli animi con discorsi ornati, ma all’insegnamento si addice la chiarezza. Là dove manchi la ricchezza dei contenuti abbondano le parole; è infatti costume di chi non ha progetto moltiplicare le strade o sfinirsi in tentativi.

Che certezza potrà mai trasmetterti chi dubita di sé?

Solo chi ha una logica di azione resta se stesso, fermo come il Sole, mentre lo stolto è instabile come l’erratica Luna; poiché chi ha una mente provvida incede con passo sicuro: prima medita a lungo e poi parla correttamente, per non doversi giudicare con vergogna.

Il desiderio di comprendere ciò che dicono i dotti e ciò che fanno i buoni arda sempre nel tuo cuore.

Impara a lungo, Astrolabio e insegna solo quando sarai certo; insegna tardi e non precipitarti subito a scrivere: non voglio che il tuo insegnamento sia quello di un maestro impulsivo, costretto a improvvisare e a plasmare il sapere che deve trasmettere.

Tra le opere teologiche occorre richiamare il Sic et non, ivi raccolse le testimonianze, in apparenza contraddittorie, delle Scritture e dei Padri della Chiesa, stabilendo che non si devono usare arbitrariamente le Autorità. In un periodo e in un ambiente in cui le arguzie e i ragionamenti sofistici erano onnipresenti, per Abelardo la dialettica aveva come fondamentale compito la chiarificazione della verità della fede e la confutazione degli infedeli: la Salvezza giunge dalle Sacre Scritture, e non dai libri dei filosofi, ovvero la ricerca negli studi deve essere indirizzata alla verità; non alla gloria, alla superbia. Tuttavia, nel contendere con i maestri, Abelardo incarnò il modello dell’alunno inquisitivo e il motivare continuamente il proprio operato lo spinse alla gloria, all’esibizionismo; condizione che ha segnato negativamente la prima parte della sua vita. Raggiunto il successo, infatti, la prosperitas e la tranquillitas lo condussero alla lussuria e all’ardore bellico; non stupisce sapere che Abelardo abbandonò momentaneamente l’ideale del filosofo in continua lotta per la verità per dedicarsi, persino, alla composizione di carmi d’amore.

Abelardo, come detto, fu magister di logica: commentò i trattati di Boezio, correggendo le sue tendenze platoniche, riprendendo quello che per lui era il vero pensiero di Aristotele. Questione fondamentale fu il problema degli universali: se esistano nella realtà o nel pensiero, se siano corporei o incorporei, se siano separati dalle cose sensibili o vincolati ad esse. Quest’ultime erano le tesi di Porfirio; Abelardo vi aggiunse una quarta: i generi e le specie avrebbero ancora un significato per il pensiero se gli individui corrispondenti cessassero di esistere? Come soluzione si dovrebbe per prima cosa ammettere che l’universale sia una cosa, un’essenza; e che deve essere contemporaneamente tutto intero in sé e in ciascuno degli individui di cui è l’universale. Quindi, lo stesso animale esiste realmente, tutto intero, nella specie uomo e cavallo, nonostante il medesimo universale che è razionale nell’uomo, non lo è nel cavallo; ci si domanda: una cosa può essere contemporaneamente se stessa e il suo contrario? Non stupisce che, in questo dibattito, per Roscellino di Compiègne gli universali non sarebbero altro che flatus vocis. Realtà vere e proprie sono soltanto quelle individuali, i termini universali sono esclusivamente parole, suoni fisici e sensibili (in età moderna tale corrente di pensiero verrà definita nominalismo estremo).

Percorrendo il pensiero di Abelardo, un universale non coincide con un ‘gruppo di elementi’, è intero in ciascuno di essi, anteriore agli individui che vi si dispongono come nella loro specie. La difficoltà è nel sostenere che gli universali siano delle cose reali; a tal proposito Abelardo conclude che l’universalità debba attribuirsi alle parole, al sermo. L’universale consiste dunque nella funzione logica di certe parole. Le cose si prestano da sé alla predicazione poiché gli universali non esistono al di fuori di esse, si dice che queste abbiano di che giustificare la validità o invalidità logica delle predicazioni che vi si riferiscono. Questo fondamento dell’universale viene chiamato stato.

Il contenuto degli universali del pensiero resta però da definire. In questo, Abelardo si rifà al De interpretatione di Aristotele. Quando pensiamo ad una cosa, in noi se ne forma l’immagine e quest’ultima esiste indipendentemente dal fatto. È possibile anche che si formino immagini di entità particolari, di corporeità e relazionalità, o dell’uomo in generale. In questo caso si tratta dell’immagine comune e confusa di tutti gli uomini, di ciò che essi hanno di simile. Le immagini di per sé non sono sostanze, ma vengono impiegate come segni per riferirsi ad altre cose in quanto l’oggetto di pensiero è un termine particolare che differisce da quello generale o universale. La rappresentazione di un individuo è un’immagine viva, precisa e determinata nei suoi dettagli, quella di un universale è invece debole. Abbiamo delle cose soltanto un’immagine di origine sensibile, perciò risalire oltre l’immagine fino alla pura intellezione delle cose ci è appena possibile. In quanto le sole conoscenze precise attinenti ad oggetti reali sono quelle degli esseri particolari, per Abelardo, gli universali non sono che il ‘significato dei nomi’. Il procedimento con cui li formiamo viene chiamato ‘estrazione’. Mediante termini dotati di significato, si possono formare proposizioni dotate di significato. Ad esempio “se X è un uomo, allora X è un animale” rimarrà vera anche se non dovessero più sussistere i soggetti denotati. Il verbo essere indica una relazione tra i due termini, mentre i termini universali significano qualcosa o si riferiscono a qualcosa. Secondo Abelardo non esiste pertanto un’entità uomo, ma gli uomini.

I generi e le specie quindi non esistono che nell’intelletto: significano degli esseri reali, e cioè le cose stesse particolari che i termini designano. Come nome, gli universali sono corporei poiché la loro natura è quella delle parole pronunciate, ma la loro attitudine a significare una pluralità di individui simili è incorporea. Tutti gli uomini sono simili nello status di natura, e ciò permette la sussistenza di tali termini. All’uomo viene in soccorso, inoltre, l’immaginazione, che costituisce immagini di ciò che è comune, delle relazioni tra le proposizioni.

Non stupisce sapere che grande è l’importanza dell’opera logica di Abelardo: poneva un problema esclusivamente filosofico fine a se stesso, senza alcun riferimento alla teologia, in ciò fu un pioniere. La logica di Abelardo, come sappiamo, ha influenzato profondamente il Medioevo. Alla domanda se la logica tratti di cose o di parole, Abelardo con la seconda soluzione ha contribuito alla concezione di essa come scienza autonoma, sotto questa forma verrà posto il proprio insegnamento nelle Facoltà delle Arti per merito di grandi logici oggi poco conosciuti come nel caso di Guglielmo di Sherewood e del suo discepolo Pietro Ispano, oltre che di Lamberto d’Auxerre.

Centrale fu anche il problema della morale, in quanto monaco e professore di teologia. Nello Scito te ipsum affronta il problema partendo dalla distinzione tra vizio e peccato. Il vizio è un’inclinazione ad acconsentire a ciò che è sconveniente, pertanto non è da annoverarsi tra i peccati, ma è un’inclinazione a peccare. Il peccato non consiste nell’inclinazione del volere; la tendenza naturale può portarci a compiere il male, pertanto consiste nel non astenersi da ciò che non bisogna fare, ma nell’acconsentirvi. L’intenzione stessa di farlo è l’essenza del peccato… ciò che è vero del male lo è anche del bene. Agire bene significa con l’intenzione di rispettare la volontà divina: bisogna distinguere tra la bontà dell’intenzione e la bontà del risultato. L’atto morale dettato da una buona intenzione è sempre un atto buono, come quello dettato da un’azione cattiva resta cattivo. La moralità dell’azione si confonde con quella dell’intenzione. Per agire bene non bisogna credere che ciò che si fa piaccia a Dio, bisogna che sia anche quello che Dio vuole che l’uomo faccia. Seguendo un criterio logico, Abelardo afferma che è l’intenzione che decide. Giungiamo qui a un punto cruciale: coloro che non conoscono il Vangelo non commettono alcun errore, non credendo in Cristo. Quelli che muoiono senza aver conosciuto il Vangelo sono dannati: a questa difficoltà teologica Abelardo risponde che “la causa di questa cecità, alla quale Dio li ha abbandonati, non ci risulta affatto”.

Nella Theologia cristiana, di poco posteriore, Abelardo sostiene che tra gli infedeli, quelli che hanno condotto una vita più castigata, hanno ricevuto da Dio una certa verità. Dio l’ha rivelata agli Ebrei attraverso i profeti, ai pagani attraverso i filosofi: coloro che li hanno ascoltati sono stati salvati. Come nella VIII lettera ad Eloisa, Abelardo considera la grazia come pienezza della natura e nell’incompiuto Dialogo tra un Filosofo, un Ebreo e un cristiano, arriva a concepire il Cristianesimo come la verità totale che in sé comprende le altre. La rivelazione cristiana non è una barriera che divideva gli eletti dai dannati.

Da studioso/lettore ho avuto modo di leggere direttamente alcune opere del Filosofo, in particolare l’Etica e il Dialogo (avevo iniziato anche la Teologia del sommo bene, ma «non mi ha preso»). Avviene, bisogna confessarlo, che qualvolta opere che si avevano iniziate in un dato periodo vengano riprese persino dopo anni, ma pur riconoscendo la grandezza di Abelardo, per ora non credo che mi soffermerò ulteriormente sui suoi scritti. Tuttavia vorrei provare a riflettere sulla concezione dell’intenzione, tanto cara al Filosofo, provando a costituire una cadenza su questi temi (quanto verrà qui detto non necessariamente è ortodosso rispecchiando il pensiero di Abelardo). Credo che sia opportuno differenzia tra immaginare un’azione (situazione) e l’intenzione di compierla (o meno); ad esempio in un racconto macabro, come in una scena, noi per forze di cose dobbiamo immaginarci la situazione, capirla, ma questo non significa che l’approviamo; anche nel caso in cui immaginiamo situazioni orrende ciò non avviene perché abbiamo un’intenzione malefica o perché siamo malvagi, vie più che il libero gioco della fantasia è illimitato sicché si passa da un’immagine ad un’altra indipendentemente dalla nostra volontà. Neppure i nostri desideri, credo, per la medesima ragione, possono imputarsi come colpevoli, parlo ovviamente dei cosidetti oscuri desideri; poiché anche questi si caratterizzano nella pura oscillazione che certamente è dettata dal vissuto, ma non dal volere.

Si potrebbe, in aggiunta, parlare anche dell’ignoranza delle conseguenze delle nostre azioni, come dei nostri voleri, così come persino quando si compie il male, o lo si desidera, il pentimento è dietro l’angolo proprio perché non eravamo totalmente consapevoli di quanto voluto. Pertanto lo stesso Confiteor parrebbe non adeguato quando parla di cogitatione, se vengono intesi come semplici immagini o rappresentazioni. Parola chiave risulta volontà, il voler cedere, l’aver acconsentito – nell’ottica del peccato. Tuttavia non ci si può desumere dal fatto che Abelardo cerchi una discolpa ai peccati commessi in assenza di intenzione, ovunque che non si avevano intenzione di commetterli. Tale oscillazione rende il filosofo un uomo moderno. Ovviamente dal consenso può sorgere l’azione, in quanto disposizione, ma senza di esso l’azione non può risultare colpevolizzante. Intendere e volere, un’ombra gettata verso il Diritto.

A comprovare l’assunto che vede in Abelardo un uomo moderno si consideri quando lui parla di autodifesa, ovvero che per preservare la nostra vita siamo disposti a uccidere, senza volerlo con mala intenzione, il nostro aguzzino: peccatum e mala voluntas non coincidono. Abbiamo certamente commesso un peccato, ma non era nostra intenzione. La volontà cattiva è sempre presente e ne abbiamo bisogno per la nostra virtù, si ha bisogno di uno sfidante (torna il tema militare onnipresente nel Filosofo), ma è quando intenzionalmente vi cediamo che siamo colpevoli veramente. L’azione, secondo questa apologia dell’intenzione, non aggiunge nulla al merito o demerito, ma è l’animo, la nostra disposizione ad essere incriminata o meno. Altra parola chiave, che non avremo modo di approfondire, è desiderio, laddove c’è volontà c’è desiderio, ma anche qui è la nostra disposizione a cedervi, a volerlo effettivamente a renderci eventualmente colpevoli.

Il pensiero di Abelardo si costituisce come un continuo attacco all’esteriorità, all’esteriorità delle azioni morali, anzi l’esteriorità non ha nulla a che vedere con l’etica, risultano inutili perciò i dettami, sui comportamenti, per quanto possano essere minuziosi e pervasivi.

di Giancarlo Petrella,
Proprietà letteraria riservata©

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