Leopardi, sentieri

Il “Cantico del gallo silvestre” costituisce la penultima sezione delle “Operette morali” composte da Giacomo Leopardi. Nel brano, l’autore non si limita a narrare una favola, ma riporta un messaggio filosofico che riprende una delle tematiche fondamentali tipicamente affrontate da lui: la morte.

Compie la sua analisi iniziando da una prospettiva molto ridotta, ovvero a partire dagli esseri viventi più piccoli, per poi arrivare a quelli dotati di ragione, fino a raggiungere l’immensità dell’universo.

Nonostante il tono di partenza suggerisca una qualche tensione positiva, si osserva, con il proseguimento della narrazione, come l’operetta assuma un tono tragico e inevitabile, ribadendo senza compromessi il destino di qualsiasi forma di vita.

È evidente come Leopardi abbia voluto celare tra le sue parole la reale responsabile della morte: la natura maligna. Tuttavia, proprio da essa il filosofo riesce a trarre ispirazione per le sue speculazioni: l’uomo, naturalmente intimorito dalla propria esistenza, non può fare a meno di riflettere su di essa. Ciò significa che il terrore in sé, inteso nella percezione aristotelica come meraviglia, è ciò che muove il pensiero degli uomini, ciò che permette di filosofare.

Da sempre la curiosità è stata ragione indiscussa di scoperte, progresso e avanguardie, e in quanto la sete di conoscenza, il bisogno di liberarsi dal costante terrore, ha da sempre avvolto l’esistenza umana, si ricerca una spiegazione razionale della morte, del dolore che provoca e del perché avvenga.

La visione pessimistica leopardiana arriva a un’apparente accettazione di questo fenomeno e lo attribuisce a qualsiasi cosa, anche all’universo, risolvendosi così in un disperato tentativo di abbassare la natura allo stesso livello dell’uomo, come una sorta di rivincita per le sofferenze che procura.

Il messaggio rivolto all’umanità è quello che ne rivela l’inutilità, la quale viene poi estesa alla vita nella sua totalità.

La natura stessa cade vittima di questo processo, come osserviamo ne “La ginestra”, dove il Vesuvio è massima espressione di tragicità e distruzione; nelle sue opere spicca la convinzione che niente, per Leopardi, sarà eterno. Considerando l’esistenza di per sé inutile, critica con tono sarcastico il tentativo dell’uomo di poterla abbellire con dei falsi idoli, credenze e un progresso che non hanno alcuno scopo reale; propone quindi una vita razionale e vera, che prevede la collaborazione e fratellanza tra gli esseri umani contro il male della natura.

Ancora una volta nomina l’universo e, paragonando gli uomini alle formiche, colloca le loro esistenze su un unico piano, in perfetto equilibrio, il quale arriva inevitabilmente alla morte. La filosofia leopardiana è particolarmente affezionata al tempo, al suo trascorrere e alle conseguenze che provoca sulle cose, inermi all’annientamento che causa.

Con questo, il filosofo critica aspramente Platone: definisce Dio come “nulla”, per lui niente è realmente necessario, la sua conclusione è il raggiungimento di una stasi assoluta, immobilità e quindi insensatezza.

Il dolore è sempre stato un elemento cardine della vita, a partire dalla nascita fino alla morte, ogni istante è avvolto nel dolore, il quale si manifesta in molteplici forme, come il dolore fisico, quello psicologico, quello che non sappiamo nemmeno di provare.

È una condizione alla quale non si può “scampare”, ma ci si può difendere. Leopardi, nella sua analisi della sofferenza, riesce, con il suo genio, a elaborare una teoria per la quale ogni individuo debba collaborare con gli altri per raggiungere una complicità in grado di contrastare i dolori naturali umani. Questa percezione si può facilmente ricondurre agli imperativi categorici kantiani, i quali presentano l’idea di una volontà universalmente legislatrice in grado di creare armonia tra gli uomini.

Tali teorie appaiono tanto convincenti quanto irrealizzabili: l’uomo non è un animale che ragiona considerando la collettività, bensì ha sempre dimostrato un forte individualismo ingiustificato, che lo conduce a ideare guerre e a spargere sangue. Tra gli uomini dilaga un cinismo radicato in fondamenti storici che dimostrano quanto questo sia controproducente, ma il potere è sempre stata l’ambizione più agognata.

Le idee del filosofo Leopardi sono semplici, pretenziose sotto certi punti di vista, ma lungimiranti. Il suo pessimismo è il prodotto di una società troppo incentrata sul singolo, che non ha contribuito al bene comune e ha portato al compimento delle prime guerre mondiali. La conquista dell’individualità è stata la più grande che l’uomo potesse mai raggiungere, ma è anche la sua disgrazia più grande e la possibile causa della sua fine.

Riflessione stilata dalla studentessa Rachele Masciocchi, Liceo Scientifico Statale Antonio Labriola (RM).

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