alcune figure de “la Fenomenologia dello Spirito”

La Fenomenologia dello Spirito, ovvero la Scienza dell’esperienza della coscienza, è stata pubblicata nel 1807 a Jena; ma prima di affrontare le profonde dinamiche ivi inserite, alcune premesse sono doverose, soprattutto in ambito linguistico. Per prima cosa col termine scienza si intende discorso organico, in cui ogni aspetto precede o segue il successivo come se fosse per l’appunto un organismo (seme, pianta, fiore, frutto etc.). Con il termine Spirito (Geist), si intende tutto ciò che non è naturale, che si erge differenziandosi dalla natura; il diritto, l’economia, le scienze, la letteratura etc. ovvero tutto ciò che ha a che fare con l’uomo in quanto uomo.

Altri termini fanno comprendere una volta di più la specificità del lessico Hegeliano; cioè la dicotomia astrattoconcreto e il termine figura. Quando pensiamo agli oggetti, pensiamo agli individui, però in un senso più lato, speculativo, sono le leggi, le categorie che hanno più sostanza ovvero più che un sasso è la legge di gravitazione universale ad avere più realtà rispetto agli oggetti, dunque la prima sarà concreta, i secondi astratti; l’economia è perciò più concreta che i singoli scambi fra gli individui. Ha più realtà una società, per esempio gli ateniesi dell’antica Grecia, piuttosto che un qualsiasi cittadino. Più qualcosa è reale, di conseguenza, e più è concreto e necessario: una società è più necessaria del singolo individuo. Più qualcosa è contingente e più sarà astratto: è contingente che voi, presi singolarmente, siate studenti, è meno contingente che la scuola esista.

Infine col termine figura (Gestalt) si intende un momento storico e atemporale in cui si esplica lo Spirito, in cui la coscienza esperisce qualcosa che poi si rivela essere sempre se stessa, ovvero coscienza. In un senso storico è esistito il servo e il padrone, in un senso atemporale esisterà sempre nel momento in cui si avranno due coscienze. Così come anche la coscienza infelice etc.

L’autocoscienza non significa solo esser consci di sé, ma proprio della propria realtà: gli altri, l’autocoscienza ha perciò un valore sociale e politico; confrontandoci e scontrandoci con gli altri capiremo chi siamo. Tale incontro non è sempre pacifico, in un senso ancestrale i primi uomini si sono divisi in servi e padrone, due coscienze quando si incontrano instaurano questa scissione: chi è in grado e desidera preservare la propria vita al di là di tutto, chi invece, pur di manifestare se stesso, ergere se stesso, rinuncia alla vita per essere signore. Per essere libero. Abbiamo così il servo e il padrone.

Nella storia queste dinamiche certamente possono apparire nel mondo cavalleresco: un mondo in cui chi desiderava essere, trionfare, era sempre pronto a perdere la propria vita o anche per preservare il proprio onore; mentre i servi, gli schiavi, pur di sopravvivere, obbedirebbero ciecamente a qualsiasi signore. Tale dinamiche però si presentano anche nel quotidiano quando tra due contendenti, uno decide (per la pace? serenità? rinuncia?) di lasciar perdere la discussione a favore dell’altro. Le figure, ricordiamo, hanno un valore sia storico che trascendentale in qualche modo.

Tuttavia, speculativamente, il servo è il padrone poiché senza il lavoro del primo, senza il sostentamento del primo il padrone vero non può sopravvivere (v. operai, industriali); il lavoro del servo mantiene sia il servo sia il padrone; il padrone non può far a meno del servo. Il padrone è il servo perché dipende dal lavoro del servo vero. Il servo è il padrone poiché è attivo, modifica, forma la materia, produce per il mezzo del lavoro. Questo è il caso del togliere-conservare (Aufheben); i vari momenti dello sviluppo, dialettico, dello Spirito si tolgono ma non si eliminano, si conservano anche.

Nella figura servo-padrone i momenti sono la paura della morte, il servizio, il lavoro (che significa indipendenza): il lavoro forma, dà forma al servo che produce, mette tutto se stesso, pone in esso la propria essenza, oltre che la sua forza materiale – diversamente il padrone si limita ad usare gli oggetti prodotti dal servo. Le cose prodotte dal servo non sono del servo, ma del padrone, ergo il servo domina i suoi desideri, acquisendo più dignità del padrone stesso – secondo Marx questa figura però doveva essere ulteriormente analizzata (v. il comunismo).

Da la Fenomenologia dello Spirito

Il lavoro, invece, è appetito tenuto a freno, è un dileguare trattenuto; ovvero: il lavoro forma. Il rapporto negativo verso l’oggetto diventa forma dell’oggetto stesso, diventa qualcosa che permane; e ciò perché proprio a chi lavora l’oggetto ha indipendenza. Tale medio negativo o l’operare formativo costituiscono in pari tempo la singolarità o il puro essere-per-sé della coscienza che ora, nel lavoro, esce fuori di sé nell’elemento del permanere: così, quindi, la coscienza che lavora giunge all’intuizione dell’essere indipendente come di se stessa. […]. Così, proprio nel lavoro, dove sembrava ch’essa fosse un senso estraneo, la coscienza, mediante questo ritrovamento di se stessa attraverso se stessa, diviene senso proprio.

L’indipendenza dai bisogni è la traccia per comprendere lo stoicismo, la visione ove il saggio ritiene di poter fare a meno delle cose e dei beni, quindi di essere al di sopra della natura raggiungendo l’autosufficienza (servo-padrone); ma lo stoico si illude perché la natura sussiste, come anche i suoi bisogni. Dunque lo stoicismo, che era in armonia con la dignità del lavoro del servo, non è il termine dei nostri discorsi; subentra lo scettico (il movimento dello Spirito è essenzialmente un movimento storico); ma lo scettico è in sé la contraddizione che da un lato è tutto vano, egli dichiara, ed incerto, ma dall’altro desidera e vorrebbe sostenere qualcosa di vero. «La coscienza del servo può trovare espressione nello stoicismo: l’uomo è indipendente – e libero – al di là della propria condizione; può essere libero “sul trono e in catene”.»

Lo stoicismo ignora l’oggettività della natura con la propria indifferenza, e lascia sussistere in lei l’oggettività; oggettività, presunta, che viene messa in discussione proprio dallo scettico che negando l’oggettività e qualsiasi oggettività in sé, vive e si alimenta della propria coscienza (l’atteggiamento tipico dello saggio scettico è l’atarassia, l’assenza di turbamento per l’appunto).

La scissione tra l’uno e il Tutto, con lo scetticismo evocata, tra l’individuo e la totalità del mondo, si esplicherà di nuovo nella figura della coscienza infelice, religione, ove ricorre la scissione tra il soggetto e la totalità di Dio. Pertanto, altra figura (Gestalt) importante nella Fenomenologia è quella della coscienza infelice; l’abisso, la scissione tra la coscienza che si sente mutevole, cangiante, e quella immutabile eterna, imperscrutabile di Dio genera una scissione nell’uomo stesso ovvero fra l’uomo e il suo Dio. Un Dio visto all’opposto di sé, si pensi ai monaci medievali o all’ebraismo (sempre le figure sono storiche e astoriche). Questo Dio è padrone della vita e della morte: c’è ancora un rapporto di servo-padrone.

Tuttavia se si riflette, se si specula, si nota che nel cristianesimo quel Dio non è irraggiungibile, ma si fa uomo; eppure Cristo è risorto, dunque ancora lontano dall’uomo comune, ed è anche un essere atemporale, anteriore persino all’uomo, un evento separato dalla storia; questa scissione continua genera l’infelicità della coscienza.

Da la Fenomenologia dello Spirito

Questa coscienza infelice in sé scissa è cosí costituita che, essendo tale contraddizione della sua essenza una coscienza, la sua prima coscienza deve sempre avere insieme anche l’altra; e in tal modo, mentre essa ritiene di aver conseguita la vittoria e la quiete, deve immediatamente venir cacciata da ciascuna delle due coscienze. Ma il suo vero ritorno in se stessa, o la sua conciliazione con sé, rappresenta il concetto dello spirito che, ormai vitale, è entrato nella sfera dell’esistenza: e ciò perché essa come coscienza indivisa è nel medesimo tempo coscienza duplicata; essa è l’intuirsi di un’autocoscienza in un’altra; essa stessa è l’una e l’altra autocoscienza, e l’unità di entrambe le è anche la sua essenza; ma essa per sé non è ancora questa essenza medesima, non è ancora l’unità di entrambe le autocoscienze.

L’uomo così si mortifica, nella devozione, riconoscendo Tutto in Dio e il nulla in sé; ma questa devozione è solo sentimentalismo, che non porta al raggiungimento del vero infinito (raggiungibile col pensiero, nello Spirito Assoluto – ultimo capitolo della Fenomenologia); questa mortificazione arriva anche a pratiche ascetiche, alle più profonde mortificazioni di sé. Pur esistono le opere di bene, in cui l’uomo spera di avvicinarsi a Dio e ricongiungersi con esso; ma di nuovo questo bene e queste opere provengono da Dio, dunque v’è un’ulteriore mortificazione e separazione dal Creatore. Successivamente nel Rinascimento l’uomo riprende coscienza di sé, della propria dignità: dal punto più basso, dal constatare di non essere nulla, comprende di essere qualcosa e che quel Dio non è infinitamente lontano dagli uomini, ma è nella Natura.

Il Rinascimento è un momento dello Spirito in cui si ha la ragione osservativa: l’uomo cerca e osserva la natura alla ricerca di Dio, così nasce la pretesa di conquistare l’Assoluto (il dominio dell’uomo sul mondo nasce da qua, almeno la fase embrionale) tramite l’osservazione; ma la pura e semplice descrizione del mondo, della scienza Galileniana, non è atta a comprendere l’Assoluto e a generare la felicità per gli uomini (il Rinascimento dunque non è il fine e la fine della Storia), ancora una volta la totalità sfugge all’uomo, al suo potere; ma questa totalità non va cercata in un principio fuori dal mondo (trascendentale), neppure nella Natura (di per sé inerme, opposta allo Spirito, meccanica – siamo agli antipodi di Kant), ma proprio nel mondo umano: nello Spirito. Infatti, dopo il Rinascimento si avrà Cartesio e con lui possiamo gridare: «Ormai possiamo dire di trovarci in essa proprio a casa nostra e, come il navigatore dopo lungo errare sul pelago infuriato, possiamo gridar “terra”.»

Tramite molteplici altre figure l’uomo, o meglio lo Spirito capirà che la totalità e l’infinità che si desidera è nello Spirito stesso, entro di lui, non fuori dalla coscienza. Lo Spirito, che è movimento, che si muove, si autodifferenzia, come la coscienza stesse con le cose e si differenzia anche da se stessa (io non sono più il ragazzo che aveva venti anni), che è soggetto (io sono il protagonista della mia vita come l’umanità stessa è protagonista di se stessa) e che da sé produce i suoi nemici (guerre, cambiamenti climatici etc.), questo Spirito che si muove giunge a comprendere se stesso come la verità assoluta. Vedremo di poi come lo stato, l’arte, la religione e la storia (e la memoria) siano espressioni emblematiche dello Spirito.

A partire sempre dal negativo, motore della storia, fino a giunge alla maestosità, alla vetta dello Spirito, al termine del Romanzo dello spirito – nel romanticismo il Romanzo è stato un genere prediletto e questa Fenomenologia è il romanzo dello Spirito: colma di retroscena, nemici, amici e conclusioni inaspettata ma dove il protagonista, lo Spirito, che spesso ha perduto la via, conquisterà se stesso.

Da la Fenomenologia dello Spirito

La vita dello Spirito, invece, non è quella che si riempie d’orrore dinanzi alla morte e si preserva integra dal disfacimento e dalla devastazione, ma è quella vita che sopporta la morte e si mantiene in essa. Lo Spirito conquista la propria verità solo a condizione di ritrovare se stesso nella disgregazione assoluta. Lo Spirito è questa potenza, ma non nel senso del positivo che distoglie lo sguardo dal negativo come quando ci sbarazziamo in fretta di qualcosa dicendo che non è o che è falso, per passare subito a qualcos’altro. Lo Spirito è invece questa potenza solo quando guarda in faccia il negativo e soggiorna presso di esso. Tale soggiorno è il potere magico che converte il negativo nell’essere.

di Giancarlo Petrella,
Proprietà letteraria riservata©

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