Etica e Religione in Kant

In questo modestissimo riassunto, per studenti liceali, sottolineo, ho cercato di sintetizzare uno dei temi più importanti di Kant, forse il più importante, la questione etica; perciò molti aspetti torneranno a più riprese, aggiungendo, definendo, arricchendo il discorso. Come in una centrifuga.

La ragione in un contesto kantiano ha certamente una valenza regolativa non solo negli aspetti più squisitamente teorici dell’esperienza (dei fenomeni), viepiù si scaglia quale elemento regolativo etico; è la ragione che ci mostra come comportarci. Mentre la Critica della ragion pura ha posto in maniera ineluttabile quali siano i limiti conoscitivi a partire dal sensibile, mantenendosi nel piano del fenomeno, al «dato», la Pratica ci indica un mondo in cui noi siamo non solo l’accidentale, il caso, ma il necessario quali esseri dotati di ragione, capaci di attuare regole, in primis l’imperativo categorico.

L’esposizione dell’etica Kantiana è così esposta

Premesse e differenze con La Critica della ragion pura
La massima come regola dell’arbitrio
La non sussistenza di una soluzione morale intermedia
Della tendenza al male
La volontà buona come fine della ragione
L’esigenza della religione

Libertà e legge morale
Si deve postulare la libertà, insista in ogni scelta e momento della coscienza: sono io imputabile per la mia esistenza, non il destino, non cause naturali o meccaniche. Si ha il concetto della libertà come evento fondamentale dell’uso effettivo, pratico, della ragione. La libertà significa la possibilità di seguire massime ‒ individuali, che possono essere sbagliate, o universali, che non sono più massime ma regole ‒ o meglio ancora di agire in modo tale che le nostre azioni possano divenire degne d’essere seguite da chiunque; in ciò emergerebbe l’imperativo categorico.

da la Fondazione della metafisica dei costumi

Agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale.

L’imperativo categorico risponde alla domanda, se ho la possibilità di scegliere e sussiste perciò il bene e il male, vi deve essere una regola, con la quale io sono sempre in rapporto, a cui posso aspirare o posso negare, questa regola consiste proprio nell’imperativo categorico. Sussiste un fondamento universale che deve guidare la volontà, una legge morale, per l’appunto, stella polare del nostro agire. Non è, chi molto devoto, anche alla ricerca di una Guida? Di un bene oggettivo e non opinionabile, di una giustizia inequivocabile? Questo fondamento mostra ciò che è giusto: potenzialmente ogni essere dotato di ragione conosce il proprio dovere.
La legge morale è certamente universale, autonoma (incondizionata) rispetto agli elementi esterni o soggettivi, cioè è razionale. Infine formale, non si riferisce a un singolo contenuto, ma consiste nella forma generale a cui ogni azione si deve conformare. Su taluni di questi spunti torneremo.
Vorrei sottolineare il verbo, del tutto eloquente, del volere.
Proprio La Fondazione Fondazione della metafisica dei costumi, fra i molteplici aspetti, ha come tema il carattere è la specifica costituzione della volontà che usa i propri doni, i propri talenti; cioè indicare come avere una buona volontà che diriga i talenti e i doni della fortuna, i quali hanno un loro influsso sull’animo.

L’imperativo categorico e le sue formulazioni
Come già sostenuto, l’imperativo è di due nature: 1. ipotetico: è l’azione necessaria per raggiungere un certo scopo (se vuoi…, allora devi…; laddove il fine dell’azione è fuori dall’azione, è estrinseco essa), ed ha certamente un carattere individuale, in quanto il desiderio ivi espresso lo è, ma la regola ha di per sé una forma che si universalizza rispetto a una semplice massima; 2. categorico: è l’azione in sé ad avere un fine (questo significa, in sostanza, morale), ed è assoluto; il fine è intrinseco all’azione. La legge morale è un imperativo categorico poiché non dipende da un contenuto, bensì ha un principio normativo che la rende valida universalmente. Kant precisa che un’azione è moralmente valida quando soddisfa il criterio dell’universalizzazione, ossia quando ogni uomo (come essere razionale) ipotizza il proprio comportamento come adottabile da chiunque. La filosofia morale è essenzialmente, per questo, pura; ci deve essere una reine Moralphilosophie.
Per quanto concerne le tre formulazione dell’imperativo categorico, esse sostengono: 1. «agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale»; 2. «agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo» (ivi la follia e l’imprecisione di Eichmann di evocare l’imperativo categorico per discolparsi: Kant non è possibile usarlo nel contesto del nazismo, neppure la particolarità del dovere-per-il-dovere rimane una scusante per i crimini nazisti, anzi); 3. «la volontà non è semplicemente sottoposta alla legge, ma lo è in modo da dover essere considerata auto-legislatrice e solo a questo patto sottostà alla legge». La volontà è libera di seguire ciò che si presuppone da sé; in ciò rimane tutta la dignità dell’uomo. Nella Pratica, è espresso in questi altri termini: «Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere come principio di una legislazione universale.» C’è una lieve contraddizione in questi magnifici discorsi, la formulazione che prescrive di trattare l’umanità come un fine, mai esclusivamente come un mezzo, rimane di per sé non soltanto formale, ma una prescrizione ben definita: essa presenta un contenuto; un valore assoluto, infinitamente assoluto.
Per concludere, prima di ogni azione, prima di concretizzare una nostra massima, ci si deve domandare, sarebbe giusto per ogni uomo? Questa massima potrebbe essere considerata un imperativo categorico? Se rispondessimo in modo affermativo, significa che la massima si può trasformare in un imperativo e diventare legge morale universale: va da sé che così ognuno può diventare metro del bene e del male (pensiamo ai gerarchi nazisti o al battaglione Azov, che ‘leggono Kant’)?, no! Kant postula una ragione di per sé incorruttibile dell’uomo e un suo possibile sincero impiego. Si ricordi, inoltre, che l’imperativo categorico sostiene di trattare l’umanità come fine.

Da la Critica della ragion pratica, “il cielo stellato”

Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto piú spesso e piú a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo a una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico, del loro principio e della loro durata. La seconda comincia dal mio io indivisibile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che ha la vera infinitezza, ma che solo l’intelletto può penetrare, e con cui (ma perciò anche in pari tempo con tutti quei mondi visibili) io mi riconosco in una connessione non, come là, semplicemente accidentale, ma universale e necessaria. Il primo spettacolo di una quantità innumerevole di mondi annulla affatto la mia importanza di creatura animale che deve restituire al pianeta (un semplice punto nell’Universo) la materia della quale si formò, dopo essere stata provvista per breve tempo (e non si sa come) della forza vitale. Il secondo, invece, eleva infinitamente il mio valore, come [valore] di una intelligenza, mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall’animalità e anche dall’intero mondo sensibile, almeno per quanto si può riferire dalla determinazione conforme ai fini della mia esistenza mediante questa legge: la quale determinazione non è ristretta alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all’infinito.
Il criminale “kantiano” Eichmann, burocrate dell’Olocausto.

Appunti stilati dal docente Giancarlo Petrella.

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